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Il nome, conseguentemente ai notevoli sviluppi di questo porto mediterraneo e delle sue istituzioni culturali in epoca greco romana, simboleggia comunemente la nascita e la fioritura della civiltà greca.
Ci si potrebbe chiedere cosa questo territorio di ellenisti abbia a che fare con i faraoni, e perché interessi gli egittologi.
sia nel senso di “edificio solido” in contrasto con i capanni dei bovari, sia perché, secondo una recente ipotesi tale nome denotava il “cantiere di costruzione” avviato dai greco macedoni.
Al largo, a circa 800 metri di distanza, si trova un’isola, Faro, dove Tolomeo fece erigere il faro che serviva come punto di sosta per i naviganti giunti dal mare Egeo, prima di rasentare la costa verso est per presentarsi alla dogana del faraone, all’entrata del ramo occidentale del Nilo,
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Discepoli dei filosofi greci, amanti della letteratura greca, i Tolomei fecero della loro capitale un luogo di raccolta e un centro di sviluppo del patrimonio ellenico.
Così come non ha alcun fondamento l’idea che le opere dei pensatori e dei saggi alessandrini, Eratostene ed altri, derivassero dalla scienza sacra degli ideogrammi di Menfi, Tebe ed Eliopoli.
Una colonia pressoché totalmente chiusa alle persone, alle credenze e alle pratiche dei nativi.
Gli abitanti di Menfi, compresi i coloni greci di nascita, veneravano in quanto forma, in questo mondo e nell’altro, del dio supremo, al tempo stesso Ra, Ptah e Osiride.
A partire dal XVIII secolo, i viaggiatori europei, le autorità archeologiche locali e nazionali e le esplorazioni condotte più di recente sulle parti sommerse dal Centro di studi alessandrini e dall’Istituto europeo di archeologia sottomarina, hanno raccolto in tutta la città, insieme a vestigia di stile e lingua greci, una notevole quantità di testimonianze e di frammenti di stile faraonico, che spesso mostrano iscrizioni geroglifiche.
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In alcuni frammenti architettonici: colonne, pezzi di parete, cornici di porte e, soprattutto, i sette singolari muretti intercolunni degli Psammetico e di Nectanebo I, poi distribuiti tra i musei di Bologna, Alessandria, Vienna e Londra.
D’altra parte, tracce rinvenute su molte pietre erranti dimostrano che in epoca greco romana furono nuovamente tagliate, magari parecchie volte, e reimpiegate come materiale da costruzione.
Le prime, soprattutto i famosi colossi dei re lagidi e delle regine isiache ritrovati ai piedi del forte Qait Bey e nei sobborghi di Eleusi, o ancora il gruppo dei Filadelfi scoperto a Faro, dimostrano che i sovrani macedoni si compiacquero di esibire tutta la loro potenza divina sotto le sembianze di faraoni all’interno stesso della Città ellenica.
Ora, sappiamo benissimo che nel corso del III secolo personaggi forniti di dignità sacerdotale, originari dei nomoi, frequentavano la Corte e che nel II – I secolo alcuni tra loro, a un tempo tradizionali ed ellenizzati, ricoprivano nella capitale alti incarichi governativi fino a quello, importantissimo, di ministro dell’economia.
A quanto sembra, le sfingi, come le immagini del re che compie atti di offerta, furono semplicemente integrate nei beni mobili rituali del Serapeum e di altri templi, nei quali materializzavano la presenza e l’azione del faraone, affermando in tutto e per tutto la prestigiosa e remota continuità della regalità divina.
Dal 30 a.C., quando il suo sfacelo fu evidente, l’ Imperatore romano decise di trasportarne gli obelischi fino a Roma, in omaggio al Sole e come testimonianza del dominio acquisito sul mondo.
Senza ombra di dubbio, la storia complicata di questi faraonica città di Alessandria imporrà di essere metodicamente precisi al fine di determinare la giusta collocazione dei faraoni, dei geroglifici e degli egittologi nell’archeologia alessandrina.
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